Permessi legge 104 per lavoratore disabile: validi non solo per le attività di cura
07.10.2020

E' stata
recentemente depositata una interessante ordinanza della Cassazione (la n. 20243/2020) che riguarda il
tema dei permessi per i lavoratori disabili, previsti dalla Legge 104 (art.33 comma 3), e delle
attività lecite durante queste assenze dal posto di lavoro.In estrema sintesi, la Corte ha dichiarato, rispetto ad uno
specifico caso, l'illegittimità del licenziamento di un
lavoratore disabile che aveva usufruito dei permessi retribuiti, in concomitanza con le festività, per viaggi in
auto e spese. La Corte ha motivato questa decisione ricordando che i
permessi per i lavoratori disabili hanno lo scopo di agevolare l'integrazione nella famiglia e nella
società, consentendo al beneficiario di ristabilire l'equilibrio fisico
e psicologico (e quindi non necessariamente attraverso attività di
cura).
IL CASO SPECIFICO
Il caso riguarda un uomo, lavoratore con disabilità,
licenziato per presunto abuso dei permessi previsti dalla Legge 104/92: secondo il
datore di lavoro aveva allungato i giorni di assenza in concomitanza
con delle festività, e al di fuori di esigenze di cura connesse alla sua
condizione di invalido. Inoltre il datore di lavoro, supportato da prove
documentali, contestava che le attività svolte dal lavoratore durante i giorni
di permesso, come guidare l'auto per lunghi tratti e caricare la spesa, fossero
incompatibili con il suo stato di invalidità. Di fronte al licenziamento, il lavoratore
aveva quindi fatto ricorso, e prima di arrivare di fronte alla Cassazione, il
caso era già stato esaminato dai giudici di primo e secondo grado, che già avevano
riconosciuto illegittimo il licenziamento per giusta causa.La Corte di Cassazione ricorda come l'art. 33,
comma 6, della legge n. 104 del 1992 preveda, per il lavoratore che sia
riconosciuto in stato di handicap grave (art.3 comma 3 legge 104/92), la
possibilità di usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni), di scegliere - ove possibile - una sede di
lavoro più vicina al domicilio, di non essere trasferito in altra sede senza il
suo consenso. Nel ricordare che per questi soggetti è previsto, tra gli altri, anche il diritto di essere assistiti da familiari che possono
godere di permessi lavorativi, la Cassazione precisa come la tutela ed il
sostegno del portatore di handicap sono garantiti, come in questi casi, non
solo mediante l'erogazione di prestazioni economiche dirette, ma anche
attraverso varie forme di tutela indiretta, riconducibili alla logica della
prestazione in servizi piuttosto che di benefici monetari immediati,
che costituiscono un articolato sistema di welfare, anche familiare, connesso
ai doveri di solidarietà sociale.L'assistenza
del disabile e, in particolare, il soddisfacimento dell'esigenza di socializzazione, costituiscono
"fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di
tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più
ampia di salute psico-fisica" (sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003;
cfr. altresì sentenza n. 213 del 2016).
La Cassazione ricorda come la Corte Costituzionale abbia
inoltre rilevato che la finalità perseguita dalla legge n. 104 del 1992 consiste nella
tutela della salute psico-fisica del disabile, che costituisce
un diritto fondamentale dell'individuo (art. 32 Cost.) e rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica
riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).In riferimento ai permessi fruiti dai familiari
(art. 33, comma 3, della legge n. 104), la Cassazione ha ricordato come in
precedenti sentenze la Corte stessa abbia affermato come l'assistenza non possa essere intesa riduttivamente come mera
assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ma debba
necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il soggetto
non sia in condizioni di compiere autonomamente.
L'abuso quindi va a configurarsi solo quando il lavoratore
utilizzi i permessi per fini diversi dall'assistenza, da intendere in
senso ampio, in favore del familiare. L'interesse primario cui è preposta la
legge n. 104 del 1992 è quello di assicurare in via prioritaria la continuità
nelle cure e nell'assistenza al disabile che si realizzino in ambito familiare, attraverso una serie di benefici a favore delle persone che se ne
prendono cura, pur dovendo scongiurarsi utilizzi fraudolenti dell'attività
dei familiari che integrino l'abuso del diritto e violino i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti
del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini
disciplinari.
La ratio della normativa, si ricorda, è quella di garantire
alla persona disabile l'assistenza e l'integrazione sociale necessaria a ridurre l'impatto negativo della grave disabilità.La Cassazione ricorda come i lavoratori portatori di handicap, proprio perché svolgono attività
lavorativa, sono gravati più di quanto non sia un lavoratore che assista un
coniuge o un parente invalido.
Aggiunge quindi come la fruizione dei permessi, non può essere, dunque,
vincolata necessariamente allo svolgimento di visite mediche o di altri
interventi di cura, essendo - più in generale - preordinata all'obiettivo di ristabilire l'equilibrio fisico e psicologico
necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale.
La Corte sottolinea quindi come i permessi del lavoratore
disabile debbano essere considerati diversamente da quelli del familiare che
assiste, poiché i secondi devono necessariamente riferire le loro attività
verso la persona svantaggiata, mentre l'obiettivo che la legge si pone per il
soggetto con handicap è la sua integrazione sociale.
Fonte: disabili.com del 05/10/2020